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La bellezza degli sbagli.

 

"Rimandare è la scusa dei perdenti!
I vincenti non hanno paura di perdere!
Trasforma i tuoi problemi in vittorie!
I vincenti sono persone determinate!
Sei nato per vincere, devi pianificarlo, prepararti e aspettarti di vincere!  
I vincenti fanno quello che i perdenti non vogliono fare,
I perdenti si fissano sui vincitori,
I vincenti non mollano mai!"

Bene! Anzi... Male!
Dopo questa sacchettata di velenoso letame motivazionale e profondo disagio psicologico, ragioniamo. Anche basta con questa favola orribile dei vincenti e dei perdenti.

Questa robaccia genera solo sconfitti.

Fatevene una ragione.

Oggi voglio parlarvi dell’importanza degli errori, dei tentativi mal riusciti, delle situazioni spurie ma NON dalla solita e altrettanto tossica visione individuale ma, invece, dalla decisamente più importante, visione collettiva; quella che cambia i destini attraverso la potenza e la diversità delle sue storie.

Partiamo dagli Stati Uniti dell’immediato dopoguerra animati dal testosteronico vento della vittoria.
Comincia in quegli anni la lentissima e drammatica resa dei conti sui diritti civili giustamente pretesa da un’importante fetta di americani. Succede TUTTO e in costante sinergia tra arte, musica, poesia, danza, letteratura, politica e filosofia, in un meraviglioso vortice di complessità esponenziale.

La verità, non piacerà ai pochi, è che l’America migliore è quella che ha lottato per i diritti civili, che si è lasciata attraversare dagli scritti della Beat Generation, che ha curato le sue inquietudini col BeBop, con il Cool Jazz, che si è rinnovata il sangue col mondo latino sino a far diventare “On the road” di Kerouac un liberatorio manifesto culturale e identitario insieme ai versi di Ginsberg, Burroughs e tanti altri.
L’America migliore è quella imperfetta e dubbiosa ma altresì rinnovatrice e creatrice.
L’altra America, quella suprematista, conservatrice e iper liberista ha seminato e semina, ieri come oggi, veleno e diseguaglianze.

Cosa accade tra il 1945 e il 1970?  
In 25 anni…

Dopo l’ennesimo tradimento alla comunità afroamericana, che combatté nella seconda guerra mondiale e incendiò con lo swing, il lindy e il boogie le sale e i cuori degli anni ‘40, è il momento del nuovo jazz; quello che non si balla e che ti fa pensare, che mastica amaro l’orrore del razzismo, cha paga un prezzo terribile, di droga e alcol, alla sua emarginazione. Esplodono le comunità subalterne, quelle degli afroamericani, quella immensa degli immigrati latini con il Mambo e il Cha Cha Cha nella cattedrale del Palladium di New York sino al 1956 quando arriva inarrestabile il Rock & Roll e tutti i giovani del mondo lo accolgono come rivoluzionario.
Ma già rivoluzionaria e moooolto Rock era stata la piccola Rosa Parks nel 1955 quando decise di sedersi sulle sedie riservate ai bianchi in un pulman di Montgomery avviando di fatto il motore gigantesco delle proteste per i diritti civili.

Ma cominciamo da qui a tratteggiare il lato B, inesatto e necessario, di questa storia.

Sì!
Tutta bella la narrazione lineare, ma lo è veramente?
Manco per sogno.

Perché non si può parlare di Rock&Roll senza partire dal Rhythm & Blues e figurati parlare di R&B senza parlare del Blues e del Gospel, dei canti di lavoro, di… Bach!, delle sterminate culture africane.
Avete idea di quanto, dietro i grandi nomi come Ray Charles, Ruth Brown, Fat Joe e decine d’altri, ce ne siano ancora e ancora, centinaia e centinaia di altri, sino a contare migliaia e migliaia di musicisti?
Avete idea, questi sconosciuti, quanto siano stati DETERMINANTI per la crescita di quell’ambiente? Dell’importanza di quei gruppi e personaggi di terza classe, un po’ macilenti e decisamente imperfetti? La loro trasformazione, la continua e reciproca influenza, l’esempio e la strada che aprivano ad altri musicisti che li ascoltavano?
E stiamo parlando del solo ambiente del R&B e del R&R…
Aggiungiamo l’immensità del jazz, delle musiche latine, dei Musicals, della Country Music…

In quegli anni la musica parlava!
Non si ascoltava e basta.
Muoveva le menti e i cuori di un popolo gigantesco che produceva e si rinnovava, mettendosi costantemente in discussione.

Bene!
Le colonne di quegli anni a cavallo tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 sono guidate dal R&R e dal R&B, sino a quando la Motown da Detroit decide il battito cardiaco dell’America e comincia a dare i nuovi connotati al Soul. Quella musica è letteralmente l’anima delle lotte di Martin Luther King e delle migliaia di straordinari rivoluzionari che donarono il proprio sangue per la causa di libertà e giustizia. Gli anni ’60 sono lì! Sono nelle centinaia di proteste contro il razzismo, sono negli occhi di ognuno di quelli che marciarono nel 1963 a New York. Sono nelle musiche di Sam Cooke, di Otis Redding, di Aretha Franklin, nelle amarezze di Nina Simone, nella sofferenza di Tina Turner, di Marvin Gaye.

Complessità vuole che a risposte negative e violente si cominciò con altrettanta violenza a rispondere colpo su colpo a quelle ingiustizie. Infiammarono gli animi le Black Panther, MalcomX, mentre uccidevano decine di uomini e donne senz’altra colpa che il colore della loro pelle, fu così che cominciarono a esplodere le rivolte in decine di città americane. La musica si tinse di altrettanta durezza e il Soul si trasformò in Funky con la tensione spasmodica di James Brown.

Ma il mondo, in quella metà degli anni ’60, letteralmente esplose con il Beat. I Beatles, in particolare, imperarono nelle classiche mondiali dando al stura, a partire dalle loro trasformazioni, a un rinnovamento radicale, non solo musicale, del mondo.

Furono solo loro? 
No di certo, ma quel momento storico segnò un respiro di gigantesca presa di coscienza collettiva e le giovani generazioni sentirono davvero la possibilità in quella calda estate del 1967, the summer of love, di cambiare in “amore” il motore che fino a quel momento era stato “guerra”.


Utopia?
Assolutamente sì!
Ma necessaria e vitale, feconda e costruttiva.
Quando arrivò il ’68 si era arrivati alla resa dei conti: da una parte il pragmatismo, dall’altra il possibile nutrito dall’impossibile, da una parte la gerarchia organizzata e dall’altra il caos costruttivo. 

Il fiorire culturale di quegli anni è oggi semplicemente inimmaginabile e, per certuni, incomprensibile.

Mi preme però far notare l’apparente caos, la simultaneità degli eventi, la libertà capace di innescare creatività e soprattutto la ricerca interiore dei tantissimi che liberò energie ancora oggi fondamentali.

C’era la scoperta del LSD, la marijuana ovunque (entrambe usate per veicolare positivi viaggi interiori e nuove visuali lisergiche), ma c’era anche il solito impatto, feroce e deteriore dell’eroina e di una quantità di acidi devastanti … ma, a proposito di identità collettiva, dobbiamo comprendere che una manifestazione gigantesca e “disorganizzata”, lisergica e liberatoria come Woodstock, frequentata da più di seicentomila persone (!!) senza nessun tipo di servizio d’ordine, vide tre morti (due per overdose e uno schiacciato dai buldozer che ripulivano l’area dopo la manifestazione) e nessun episodio violento.

Per la storia della musica e dell’umanità, quei giorni sono stati fondamentali e positivi.
Lo percepite nelle mie parole il susseguirsi di luci e ombre? La gigantesca complessità e l’apparente caos? 

Ecco!
Quella imprevedibilità è stata FONDAMENTALE per il novecento, per l’arte, la fotografia, il teatro, la musica, le innovazioni tecnologiche, l’avanzamento sociale, la parità dei diritti, la presa di coscienza della condizione femminile, il risveglio delle coscienze e la successiva conquista dei diritti dei lavoratori, e… qualche altra decina di importanti voci.

Sono qui a sintetizzare in uno scritto (mission impossible) la complessità che racconto in circa venti/trenta ore delle mie conferenze (e ogni volta “sentendo” sulla pelle - per amore di narrazione -  l’impossibilità d’una completezza nella descrizione).

 Ma sono storie di sconfitte e rinascite conseguenti, di sbagli e decisioni difficili, di libertà e soprattutto di complessità e libertà; quella vera e incontrollabile, indeterminabile e proprio per questo produttiva e assolutamente creativa.

C’è da imparare qualcosa, da questa prospettiva, che ci riguarda profondamente in questi tempi avvelenati.

Nemici sono, oggi come ieri: l’illusione dell’ordine e del controllo, la visione individualistica e il rigetto dell’importanza della ricerca un pensiero etico unificante, di uno sguardo utopico e sognante, degli ideali e di una morale collettiva derivante dalla libertà.
Tutto questo sta, a mio giudizio, avvelenando i pozzi, in qualunque settore culturale.
Abbiamo tutti (collettivamente) il dovere di contribuire individualmente alla meraviglia tutta umana del caos. Abbiamo il dovere di smetterla di demonizzare l’errore e l’imperfezione e ancor più abbiamo il dovere di rallentare e lasciare che le cose tornino alla velocità consona alla profondità del pensiero strutturato e abbiamo il dovere di sbagliare e di essere imperfetti sorridendo, come cosa umana e transitoria, come passaggio obbligato per crescere.

Smetterla con questa idolatria dell'Ego, dell'individualismo infallibile, di questo volerci rappresentare perfetti e arrivare pure a crederci. Abbiamo bisogno della libertà di sbagliare, di provarci, di ubriacarci di diversità per farci trascinare finalmente fuori dalle nostre certezze.

La Storia, quella bella che verrà, ha bisogno d'altro, ha bisogno di tutte le nostre inimitabili e bellissime fragilità, ha bisogno di noi.

Valerio Perla

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