Ricordo bene quei vecchi contadini, la notte tra il quattordici e il quindici di agosto, alzare il bicchiere e dire: “Alla bellezza!”. Ricordo bene il senso universale e semplice di quella dedica, la sua sacrale essenza profana, il sapore dialettale, pungente e aspro, di quel vino. L’arte, e quindi la bellezza, erano in quelle vite canto e ballo, una vertigine di endecasillabi e strambotti cantati sulla cadenza ipnotica di un tamburo. La bellezza era per loro, il barocco mozzafiato d’una cattedrale, l’immagine d’una madonna, la bellezza eterna d’ogni mamma e ancora un’alba, un fiore, un sorriso. Sempre, la bellezza, è un’indicazione del divino (quello senza nome, infinitamente incomprensibile). La bellezza è conseguentemente un suggerimento incomprensibile. L’arte, allora, è un tentativo, di spingersi appena un po’ più in là, nella comprensione, nello sforzo, tutto umano, di superare la propria condizione, come il gesto di Adamo verso dio, nel “Giudizio universale” di Michelangelo; q
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