Ricordo bene quei vecchi contadini, la notte tra il quattordici e il quindici di agosto, alzare il bicchiere e dire: “Alla bellezza!”. Ricordo bene il senso universale e semplice di quella dedica, la sua sacrale essenza profana, il sapore dialettale, pungente e aspro, di quel vino.
L’arte, e quindi la bellezza, erano in quelle vite canto e ballo, una vertigine di endecasillabi e strambotti cantati sulla cadenza ipnotica di un tamburo. La bellezza era per loro, il barocco mozzafiato d’una cattedrale, l’immagine d’una madonna, la bellezza eterna d’ogni mamma e ancora un’alba, un fiore, un sorriso.
Sempre, la bellezza, è un’indicazione del divino (quello senza nome, infinitamente incomprensibile). La bellezza è conseguentemente un suggerimento incomprensibile. L’arte, allora, è un tentativo, di spingersi appena un po’ più in là, nella comprensione, nello sforzo, tutto umano, di superare la propria condizione, come il gesto di Adamo verso dio, nel “Giudizio universale” di Michelangelo; quello sfiorare è la distanza che separa le nostre miserie dall’infinito e la forma “cerebrale” della nuvola che lo sorregge, sembra volere indicare che solo il discernimento può spingerci verso il divino.
Ci siamo illusi che potesse bastare quel contatto, che l’essere umano frequentando il bello e l’arte, potesse essere migliore. Fosse vero, gli abitanti delle città d’arte sarebbero altro dal solito bicchiere di livore stanco con cui s’affronta la convivenza col quotidiano. Forse quell’utopia nient’altro era che un inganno romantico, un’assolutoria convinzione intellettuale condita a volte persino con la spocchia.
Tra noi e l’arte (e tra questa e l’essenza) rimane la stessa, variabile quanto incolmabile, distanza.
In quello spazio c’è la mediazione fondamentale della conoscenza collettiva, del discernimento, del sapere umano, senza la quale, l’arte e la bellezza, ahinoi, saranno sempre più irraggiungibili
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